curiosità stroriche padovane  1°

Erasmo da Narni (Gattamelata)

Figlio di un fornaio diventa famoso nell ’ assedio dell ’ Aquila. Possente nella persona, porta un ’ armatura di quarantanove chili. A marce forzate attraverso torrenti e foreste sorprende il Piccinino.   Erasmo Stefano, che sarà detto Gattamelata. nasce a Narni, cittadina dell 'Umbria meridionale, nel 1370: il giorno e il mese non ci sono stati tramandati. Taluni storici sono incerti anche sul nome di battesimo, diventato Agostino, Francesco o Giovanni ma documenti e tradizione - oltre agli autografi - garantiscono che è proprio Erasmo.  Il padre, Paolo, fa il fornaio e la gente lo chiama « strenuo », nomignolo indicativo di un tipo abituato a farsi rispettare, menando le mani, non solo quando impastava. Probabilmente è proprio lui il maestro d 'armi del figliolo, un ragazzone forzuto e non sprovvisto di cervello, tant 'è vero che se la cava bene anche con i libri. Non è poco per l 'erede di un artigiano, sia pure « strenuo ». Fattosi uomo però. Erasmo Stefano è al bivio, come tanti della sua condizione: non intende sfornar pane ma nemmeno ha i mezzi per progredire negli studi. Quale lavoro alla sua portata può consentire di campar bene e di farsi rispettare? La risposta all 'interrogativo. di quei tempi, è una sola: le armi.

Quella del soldato di mestiere è una carriera certo rischiosa ma spesso remunerativa, almeno ai livelli superiori. E in alto si può arrivare anche con un albero genealogico spoglio, Tra l'altro, di mano d 'opera militare c'è grandissima richiesta perché tra guelfi e ghibellini, tra Bianchi e Neri, tra Papato e Visconti l'Italia è un perpetuo campo di battaglia. Deciso dunque a combattere, il giovane Erasmo trova un ingaggio alle dipendenze di Ceccolo Broglio, signore d 'Assisi, entrando quindi in un giro di scaramucce sul piede di casa o poco di più.  Il classico inizio dalla gavetta, scalino per scalino, in assoluta oscurità. Le sue gesta non impressionano i cronisti ma il fatidico bastone di maresciallo fa capolino dalla bisaccia e Ceccolo se n'accorge. Se un bel giorno gli regala la sua corazza è evidente che il ragazzo di Narni qualcosa d 'importante avrà fatto .Oltre alla corazza il giovanotto si guadagna il nomignolo di « Gattamelata ». col quale è passato alla storia. Sulla sua origine si è discusso, ma senza andar oltre le ipotesi. Il biografo più accreditato. Giovanni Eroli, sostiene che Erasmo diventa Gattamelata « per la dolcezza dei suoi modi congiunta a grande astuzia e furberia, di cui giovossi molto in guerra a uccellare e córre in agguato i mal cauti nemici e pel suo parlare accorto e come miele dolce e soave ».

Meno immaginifico il Giovannelli, nella sua cronaca della città di Todi, replica che la madre si chiamava Melania Gattelli e quindi il soprannome deriva dalle generalità materne. Sia come sia. Erasmo diventato Gattamelata si fa molto notare e difatti passa a una compagnia di ventura molto più importante, quella del conterraneo (di Montone, nel Perugino). Braccio da Montone, che lo nomina prefetto della cavalleria. Erasmo, a stretto contatto con Braccio, impara molto ed è di grande aiuto al suo capo nelle guerre - chiamiamole così – di posizione, negli assedi, dove si lavora di macchine, di cervello, di stratagemmi. I resocontisti sono. al solito, disattenti nei suoi riguardi, ma il Fortebracci concede a Gattamelata di sfoggiare la sua impresa ed i colori della sopravvesta: un 'altra eloquente decorazione sul campo. Nel primo ventennio del Quattrocento Braccio combatte in Umbria, nel Piceno, nelle Romagne strappando terre e castelli a Papa Martino V e Erasmo condivide parte delle sue glorie ma ali storici si ricordano di lui solo nel 1419, quando le soldatesche di Agnolo Tartaglia e dell ’ Attendolo, espugnato il castello di Capitone, vicino Narni, facendolo prigioniero.

Il suo nome riappare poi nei racconti del terribile assedio dell ’ Aquila, in cui Braccio viene ferito a morte e altri due capitani umbri si comportano molto valorosamente: Gattamelata, appunto, e Niccolò Piccinino.  Un ignoto epigrammista ci ha lasciato questo distico, a commento delle loro gesta: « Aquila bella chi t ’ ha scapillata?/ Nicolò Piccinino et Gatta Melata. » Nel disastro delle soldataglie braccesche, Erasmo è coinvolto fino in fondo, essendo caduto prigioniero degli aquilani, mentre Piccinino scappa, riunendo gli sbandati assieme al figlio di Braccio, il giovanissimo Oddo.     

                                                                        
Il Gattamelata riesce poi a fuggire e si aggrega a Oddo Fortebracci e al Piccinino, allora al servizio di Firenze contro il duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Ci resta poco però: infatti Oddo muore e il Piccinino, dopo aver litigato con la Repubblica fiorentina, passa armi e bagagli al Visconti. Gattamelata preferisce invece restare e si mette agli ordini di Niccolò della Stella, capitano generale fiorentino. Siamo intorno al 1425 ed Erasmo è un uomo sui 55 anni, con moglie e uno squadrone di 6 figlioli: 1 maschio e 5 femmine. Finn qui l ’ abbiamo sempre visto in guerra; seguiamolo ora nella vita privata e familiare. Innanzi tutto com ’ era, fisicamente? Ci sono ritratti, anche celebri, c ’ è soprattutto la statua del Donatello, ma di lui ci è arrivata anche questa descrizione, di scrittori seicenteschi come Giulio Roscio ed Agostino Mascardi: « Haveva Erasmo persona grande, volto colorito, occhi e capelli castagnicci ». Sappiamo che reggeva con bella disinvoltura, un'armatura di 134 pezzi, pesante 49 chili, alta metri 2.06 con122 centimetri di torace e 74 di spalle, più spadone e, quando glielo daranno, bastone di comando. Dai ritratti, ma ovviamente il personaggio è quello degli anni della maturità, si notano un volto pacioso, grandi occhi e un robusto nasone. Bello non doveva essere. Gattamelata s'è sposato nel 1410 con Giacoma, figlia di ser Antonio Bocarini Brunori, di Leonessa, un paese di montagna sopra Rieti. La ragazza è sorella di Gentile di Leonessa, un compagno d 'armi dei tempi di Ceccolo Broglio. Giacoma ha portato un ricco corredo ma una dote piuttosto scarsa, appena 500 ducati.

Il matrimonio a ogni modo riesce bene e nascono Lucia, Polissena Romagnuola, Antonia, Angella, Todeschina e Gian Antonio, detto coerentemente Gattolin Melata. Le femmine s'accasano brillantemente; Lucia con Mannadoro Antonio dei Landi di Todi; Polissena, celebrata per la sua bellezza ed eternata anche nelle medaglie, con Tiberto di Brandolo Brandolini di Bagnacavalllo Antonia con Lancillotto di Lucantonio Cardoli, di Narni; Angella con Giovanni Massei da Narni, cavaliere dello Speron d'oro e senatore di Roma; Todeschina con Antonio di Ranuzio de' conti Marsciano. Quanto al Gattolin Melata, segue la carriera paterna e morirà, al soldo della Serenissima, per una schiopettata alla testa ricevuta all 'assedio di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, nel 1455. Abbiamo lasciato, dunque Erasmo con Niccolò della Stella. Nel 1427, accetta le offerte di papa Martino V, portandosi appresso il fedele compagno Brandolo Brandolini di Bagnocavallo, suocero di sua figlia Polissena. E si trova a dover combattere contro una donna, Niccola dei Varano di Camerino, la vedova di Braccio da Montone, che non vuole ridare al Pontefice Gualdo Cattaneo, Città di Castello e Montone, a suo tempo conquistate dal marito. Madonna Fortebracci ha un carattere duro, non s ’ arrende nemmeno davanti alla scomunica, resiste bravamente alle truppe papaline guidate dal governatore di Perugia, Pier Donato, in aiuto del quale arriva però il Gattamelata.

La notizia basta a sgomentare i ribelli ma il Donato è troppo duro con le condizioni di pace e cosi la piccola guerra continua fino al dicembre del 1428, quando Niccola se ne torna a Camerino. In quegli anni, lo Stato Pontificio è una polveriera e, specialmente ai confini, l ’ autorità del papato e puramente nominale. Sempre irrequieti sono gli Ordelaffi a Forlì, gli Alidosi a Imola, i Migliorati a Fermo, i Canedoli, i Griffoni, i Bentivoglio, gli Zambeccari a Bologna. Per parte sua, il potente vicino milanese Filippo Maria Visconti, pesca nel torbido, avendo al soldo il Piccinino. Tra il 1428 e il 1433, Erasmo Gattamelata è il « poliziotto » papale in Emilia e nelle Romagne, stroncando questa o quella rivolta, specie nell ’ irrequieta. Bologna. Nonostante orami sia sulla sessantina, egli agisce anche direttamente, di persona, come quando va ad arrestare un nobile imolese riottoso inventando la scusa di dover saldare un debito; o quando espugna Castelfranco presentandosi con due ribaldi per consegnargli al castellano, e quello, sempliciotto, gli apre le porte. Vere azioni di « commando », insomma: per non avere sorprese, a Castelfranco fa incendiare alcuni rustici fuori le mura. Gli uomini corrono a spegnere il fuoco e lui li chiude fuori città, dicendo loro di andare a spasso per il Modenese. Diligente e preciso, manda i suoi rapporti periodici ai superiori. Così il 25 novembre 1433 scrive agli Anziani di Imola per avvisarli che i viscontei hanno passato il Panaro « et sono alloggiati al fiume della Samoggia, de qua de Bologna otto miglia et e vengono in là. Io mandato al governatore per la licenza per trovarme lì, non domando altro et così credo che l ’ averò. Conforto la M.V., a bona vardia de dì et de nocte per lo stato de N.S. et de Sancta Chiesia et per lo vostro ben proprio, avisando che non vegnono come homini, ma come lupi arabiati, non ve potria dire le strussioni che fanno dove vanno ». Tanto zelo però è mal ripagato dal nuovo papa Eugenio IV, il veneziano Gabriele Coldulmer, succeduto nel 1431 a Martino V. Gattamelata non riceve il soldo e si trova esposto in proprio verso la sua gente per 10.000 ducati d ’ oro. Molti lo vorrebbero, specie i nemici del Pontefice come il Visconti o Antonio Colonna di Salerno ma egli, dando dimostrazione di uno scrupolo più unico che raro ai suoi tempi, non vuole mettersi contro la chiesa e così accetta l ’ offerta di Venezia, alleata di Eugenio.

La Serenissima rileva il contratto anticipando al Papa i quattrini per saldare gli ultimi tre mesi di condotta del Gattamelata e di Brandolino. Fin tanto che Eugenio non avrà pagato il suo debito, i due condottieri terranno Castelfranco, come pegno. La trattativa è molto laboriosa e solo il 16 aprile 1434 si arriva alla firma del capitolato di condotta, concordato tra Girolamo di Niccola per Venezia e Michele figlio di Andrea Foce, procuratore del Gattamelata. I condottieri dovranno assicurare la disponibilità di 400 lance con tre cavalli per lancia e di 400 pedoni. Provvigione di condotta: 12 ducati per lancia, detratta s ’ intende la « onoranza di san Marco », un tributo che anticipa, in sostanza, quella che, oggi, è la ricchezza mobile. Erasmo ha 64 anni e almeno un quarantennio abbondante di milizia sulle spalle, ma anche con Venezia si trova in posizione subalterna, perché il capitano generale è Gianfrancesco Gonzaga, peraltro già incerto, nella preoccupazione di salvare il suo piccolo Stato, stretto nella morsa della Serenissima e dei Visconti. Si arriva alla pace il 26 aprile 1433, ma si tratta d'una tregua. Lo Stato della Chiesa è minacciato da Francesco Sforza e da Niccolo della Stella, mentre il Piccinino scende nelle Romagne. Eugenio IV deve rifugiarsi in Toscana e Venezia interviene, ordinando al Gattamelata di mettersi a disposizione del Pontefice, guerreggiando in Emilia. Intanto il gioco delle alleanze diviene turbinoso: lo Sforza, allettato dalla prospettiva di grandi privilegi, passa dalla parte di papa Eugenio e sconfigge lo Stella; successivamente, concorda una tregua col Piccinino che dalla Sabina, dove s'è spinto, può tornarsene a marce forzate in Romagna, accampandosi nel contado di Imola. Veneziani, fiorentini e pontifici, sempre in lega, decidono di tagliargli il passo. Lo scontro tra i due « eserciti » ciascuno di 6.000 cavalieri e 3.000 fanti - avviene il 29 agosto alla ghiaia del Sangonaro, sulla strada che da Imola conduce a Castelbolognese. Per la Lega è un disastro: 5.000 cavalli e quasi tutta la fanteria perduti, morti o prigionieri molti ufficiali. Gattamelata è ferito al torace ma la scampa. Il Piccinino non può sfruttare il successo fino in fondo perché il Duca lo manda nel reame di Napoli, dove Alfonso d'Aragona rivendica i suoi diritti al trono.

Torna presto, però. In tempo per trovarsi di fronte allo Sforza ma non c'è battaglia diretta: soltanto Manfredi, capitano di Francesco, viene respinto nell'assedio di Morano, nel Forlivese. L'episodio non ha seguito.  Il 10 agosto 1435, altro trattato di pace, ignorato comunque dallo Stella che conduce una sua guerriglia personale nelle Marche e in Umbria, facendo prigioniero Leone Sforza, fratello di Francesco. Si attira così addosso Gattamelata, Brandolino, Italiano Taddeo d'Este, Cristoforo da Tolentino e finisce male, ucciso da un colpo di lancia in un occhio, sotto le mura di Fiordimonte, vicino a Camerino. Ristabilito l'ordine, cedendo alle pressioni del Papa, la Serenissima spedisce Gattamelata e Brandolino a Brescia. dato che Eugenio ha promesso di saldare il vecchio debito dei 10.000 ducati. I condottieri vengono confermati per un altro biennio, sia pure con organici di truppa ridotti e. a sanatoria della diminuzione di stipendio nonché per il loro « egregio e notabile servigio », ricevono il feudo di Valmarino, nella Marca Trevigiana, alle sole condizioni che gli abitanti acquistino il sale da Venezia e che i feudatari offrano 10 libbre di cera per la festa di San Marco. Ma intanto gli eventi sono precipitati perché Alfonso d'Aragona è stato battuto a Ponza dai genovesi. Si assiste allora a un clamoroso voltafaccia del Visconti, che passa dalla parte dell 'Aragona; questo voltafaccia suscita però a Genova una rivolta che fa perdere al Visconti la città (Genova era allora in mano dei Signori di Milano). 1 genovesi trovano subito amici a Firenze, a Roma, a Venezia. E i soldati di ventura tornano in campo. Le scorrerie del Piccinino e dello Sforza in Toscana e in Liguria sono solo avvisaglie: la guerra si combatterà in Lombardia e la Serenissima pensa di portarla addirittura oltre l'Adda, cioè in casa del Visconti. L'operazione viene studiata in un consiglio di capitani e prevale l 'opinione del Gattamelata di gettare un ponte sul fiume e su quello entrare nel Ducato. Al vecchio Erasmo (nel 1437 ha 67 anni) tocca il rischioso compito di stabilire una testa di ponte, mentre i genieri lavorano. Siamo in aprile, l'Adda è gonfio e una repentina onda di piena spazza via il ponte con quanti vi lavorano. Gattamelata rimane così bloccato con pochi uomini in territorio nemico. All 'alba, i viscontei attaccano lo sparuto drappello: Erasmo protegge la ritirata dei suoi e poi, con l 'armatura, l 'elmo, lo spadone si butta in acqua e riesce a rientrare.  Nel frattempo Gianfrancesco Gonzaga, che era al soldo di Venezia, fiutato il vento, sta progettando di passare al Visconti, tra i quali milita il figlio Ludovico. Erasmo se ne accorge e avverte Venezia, decidendo comunque di agire da solo. Avanza tra i monti del Bergamasco ma, in questo frangente, il Piccinino e più furbo di lui e gli infligge una grave sconfitta costringendolo a riparare a Brescia. Come prima uscita autonoma del condottiero non si può dire sia stata fortunata. .

I sospetti sul sono fondati: Gianfrancesco, scadutagli la condotta, d'improvviso lascia il territorio veneto con 400 lance e se ne torna a Mantova. Si grida al tradimento mentre Gianfrancesco, per salvare la faccia, fa circolare le voci che volevano imprigionarlo e tagliargli la testa. La Serenissima tenta di farlo tornare all ’ ovile, se non altro come alleato, ma il Gonzaga non ci casca. Lo stato maggiore veneto perde, alla fine del 1437, un altro generale; il Brandolino infatti che da tempo s ’ è guastato con l ’ antico amico Gattamelata, lascia la condotta. I rapporti trai due sono tanto compromessi da arrivare alla rottura definitiva, nonostante la parentela acquisita: Erasmo addirittura cede a Brandolo, per 3.000 ducati, la sua quota del feudo di Valmarino. Il comando dell ’ esercito della Serenissima rimane cosi al Gattamelata, però la nomina ufficiale arriva soltanto il 1° ottobre 1438, con aumento del soldo e dono d'una casa a Venezia. La serie dei voltafaccia, nel frattempo. continua: anche Francesco Sforza passa al Visconti: Filippo Maria gli ha promesso in moglie la figlia Bianca Maria, aprendogli quindi la strada della successione al Ducato e in attesa, lo manda nel Napoletano, a sostenere l 'Angiò. Quanto al Piccinino, se ne va in Romagna e comincia a parlar male del Visconti, lasciando intendere di essere disposto a avvicinarsi al Papa. Roma gli fa avere 5.000 ducati, Niccolo li incassa e poi sferra un 'offensiva conquistando Bologna, Ravenna e tutta la Romagna. A nome del Visconti. Era solo un espediente. Assenti Sforza e Piccinino, Gattamelata non perde tempo, riconquistando alcune località del Cremonese, del Bresciano, del Bergamasco.

La rapidità dell'avanzata impressiona Filippo Maria, che richiama precipitosamente il Piccinino. Niccolo rientra in Lombardia espugnando Casalmaggiore (giugno 1438) e poi punta sulla Bassa Bresciana. Deve però passare l 'Oglio e, sulla sinistra, l'aspettano verso Acquanegra 9.000 cavalli e 6.000 fanti. Troppo rischioso affrontarli direttamente: meglio il diversivo di un ponte di galeoni e di una modesta sortita, che tiene impegnato Gattamelata mentre più a valle, tra Marcaria e San Michele, la notte sul 4 luglio, il grosso delle forze viscontee passa il fiume. Sarebbe un disastro per la Lega mala fortuna è dalla parte del Gattamelata: viene catturato un messaggero di Niccolo, tale Beretta, che in barca passava l'Oglio per andar nel Bresciano. Beretta, per salvare la pelle, racconta tutto e così la sorpresa sfuma. L ’ esercito veneziano precipitosamente ripara sotto le mura di Brescia, tagliandosi i ponti alle spalle. Piccinino però non l'insegue, gli preme arrivare al Garda per bloccare i rifornimenti che Gattamelata riceve da Verona. Gli schieramenti, come si dice, entrano in contatto a Gardone e l 'esito è favorevole al Piccinino: Gattamelata deve tornarsene sotto Brescia. mentre Niccolo allarga la conquista fino a Montichiari e a Valeggio. La situazione si fa difficile per Gattamelata: scarseggiano i viveri le malattie crescono (anche la peste) , le defezioni non si contano. Il Gonzaga gli chiude la via per Verona, il Piccinino quella di Bergamo da Rovato. Erasmo tenta la sortita ma arrivando sui viscontei da nord, mentre le forze nemiche sono disperse a cercar vettovaglie. Niccolò non perde la calma: riuniti gli uomini, fa muovere contro i veneziani, mandando anche 2000. Il diversivo però non riesce e si accende subito la battaglia, terminata al vespro con la vittoria del Gattamelata.

Sul terreno rimangono 400 viscontei e 200 veneziani. È solo un episodio. Gattamelata si ritrova nella stessa condizione precaria e riprova a sottrarsi all ’ accerchiamento con una nuova sortita verso Verona. A peschiera, però il Mincio è troppo gonfio e non si può guadare: una marcia disastrosa ( 40 ore senza cibo) riporta i soldati a Brescia. Il tempo di riordinare le fila e Gattamelata e di nuovo in movimento sempre alla volta di Verona. Sceglie però una strada disagevole, com ’ era allora quella per le montagne. Fa insomma il periplo del Garda nel senso sud-nord, attraverso la Val sabbia e Arco. Partenza la notte del 24 settembre 1438 con 3.000 cavalli e 2000 fanti. Non ci sono strade, ci si fa largo per i boschi abbattendo gli alberi, si guadano torrenti impetuosi, le popolazioni indigene sono mal disposte se non ostili. Una marcia, a tempi forzati, che ha dell ’ incredibile: Gattamelata lascia per la strada 600 cavalli e molto bagaglio e arriva a Rovereto il 27 settembre. Quando Piccinino lo viene a sapere, esplode una robusta bestemmia ed esclama: « Ne ha saputo più il gatto che il sorcio! ». Ma il Piccinino deve attendersi ben altri guai: Filippo Maria gli ordina infatti di assediare Brescia nonostante sia alle soglie dell ’ inverno. La città resiste splendidamente agli assalti e Niccolò pensa di ritirarsi, a svernare altrove, mentre Gattamelata cerca di mandare viveri a Brescia. E spesso gli va male, come quando (gennaio 1439) cade in un agguato tesogli dall ’ avversario, rimettendoci uomini e cose. Comunque non s ’ arrende ed escogita un ’ altro macchiavello: mandare una flotta nel Benaco ma come? Po e Mincio sono preclusi dal Gonzaga, resta solo l ’ Adige per un tratto e poi si andrà a carri e cavalli. Un progetto folle, che però la Serenissima autorizza.

E viene realizzato da Erasmo, con la collaborazione di tal Sorbolo Candiotto: 5 triremi e 25 barche risalgono l ’ Adige e poi, su carri trainati da muli o spesso a braccia dai soldati, giungono a Torbole. Nei mesi successivi, l ’ elemento determinante è rappresentato dal ritorno dello Sforza alla Serenissima, con 4000 cavalli e 2000 fanti. Francesco si unisce al Gattamelata nel padovano e, insieme, muovono in soccorso di Verona, assediata dal Piccinino e dal Gonzaga. Un sanguinoso scontro a Soave apre loro la via della città, dove però non entrano perché c ’ è la peste. Gli avvenimenti successivi corrono al ritmo d’ un romanzo di cappa e spada, tra agguati scaramucce, assalti e contrassalti. Il Piccinino viene bloccato dentro il castello di Tenno dal Gattamelata. C ’ è la peste e allora Niccolò, come racconta il Sanudo « se fece cazzar in un sacco sporco e strazzoso e, tolto in spalle per un sottrador e una zappa in man e un campanelo» riesce a scappare. Niccolò si vendica, piombando su Verona, la notte del 17 novembre 1439. Corrotta una guardia, i soldati viscontei scalano le mura e conquistano, cogliendo la gente nel sonno, la città, saccheggiandola. Tre notti dopo, Gattamelata e lo Sforza riescono a penetrare a loro volta in Verona. E la scena si ripete: il terrore è tale che la gente, scappando, fa crollare un ponte sull ’ Adige. Niccolò Piccinino e il Gonzaga si trovano assieme ai fuggiaschi. L'inverno 1439 è terribile, e il Gattamelata, alle soglie della settantina. viene colpito da un primo attacco apoplettico. Un secondo lo coglie poco dopo. Con un burchiello il vecchio condottiero è portato da Lazise a Verona. Le cure non danno risultati e la malattia lo toglie dal comando attivo. La lunga vicenda del Gattamelata è chiusa. Assiste a qualche cerimonia (come il matrimonio del figlio del doge Foscari ), riceve il soldo della condotta, sia pure ad organici ridotti, ma deve lasciare ogni incarico, anche nominale, alla fine del 1442. Un anno prima ha fatto testamento. Muore il 16 gennaio 1443 a Padova e viene sepolto nella Basilica del Santo, con onoranze a spese della Serenissima. Il compianto è generale e, si può pensare, sincero. Come accade per la gente onesta. Perché, in anni di ruberie e di stragi « non mai permise saccheggiar le città, spogliare i templi, devastare i campi, guastar le case villereccie. Non mai tollerò a' soldati dì crudelmente rapire o malmenare le madri di famiglia, o le vergini, o i fanciulli ingenui ».Per un militare di carriera, questo è un grosso complimento. E un lusinghiero bilancio morale. 

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